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Omosumo – Surfin’ Gaza

omosumo surfin gaza copertinaSe il precedente Ep era espressione dello space-age techno industriale, liquido meccanico up-tempo da fabbrica incendiata, adesso quell’energia si dispiega fino alla Terra generando un groove più maturo, volando verso evoluzioni musicali sempre più lontane, che abbracciano l’intero Cosmo, dall’America al Medioriente, sostando abbondantemente in terra sicula, come suggerisce il basso risonante registri dell’estremo sud. Registrato e mixato presso l’800a Studios di Palermo per la Malintenti Dischi, Surfin’ Gaza, debut album degli Omosumo, ovvero Roberto Cammarata, Antonio Di Martino e Angelo Sicurella, che con questo lavoro superano se stessi, al di là di ogni aspettativa, un perfezionamento degno del loro spessore artistico. Il suono è stato “ripulito”, più minimal, curato nel dettaglio ma spontaneo, velato d’ambient e meno aggressivo. Tutto ha inizio da un concept, la Striscia di Gaza: trae spunto dal documentario di Alexander Klein “God Went Surfing With The Devil” e dalle iniziative di pace di Matthew Olsen e Dorian Doc Paskowitz, nate con lo scopo di riconciliare israeliani e palestinesi tramite il surfing. Surfin’ Gaza, la title-track, è proprio un trattato di pace, la zona franca che ritrae i due popoli in armonia, astrattamente lontani da quel teatro di guerra che ha dilaniato e martoriato se stesso e tutti. Contaminazione di suoni e di lingue che comunicano questa esigenza di trascendere le differenze di civiltà e religione e che donano all’album un ampio respiro internazionale, globale e completo, dove accanto all’italiano vi si accostano liriche straniere quali l’arabo e l’inglese. L’ensemble strumentale si arricchisce di ogni strumento, synth, organi, varie drum machine, il sax in Dovunque Altrove che, tra alberi di plutonio e gente che cerca riparo dalla guerra attendendo navi dirette su Giove, si annoda al cantato italiano, minimale quanto Nowhere, bianco, uno dei brani più distinti del disco, dalle sonorità ambient che ci portano in un non-luogo areato in cui abbandonarci. Nove tracce di rara bellezza e ormai sporadica esclusività, che trasudano storie civili, affrescano immagini che si respirano tra le note, come quella del brano d’apertura, favolistico ma amaro, Yuk, racconto di una bambina che vive dentro un albero, gioca da sola attorniata da animali immaginari e osserva la sua città bombardata: eco perpetuo eurorientale al grido mistico di “Insallah”, tra synth che sembrano provenire da sott’acqua e fluide chitarre che incidono l’impossibilità di poter guardare serenamente al domani, appellandosi alla sola volontà divina. Se Walkng on Stars tocca le corde emozionali più profonde, Waves, pezzo meccanico, psicotico e dub, ci riporta sobri e più distaccati, quasi personificasse la glacialità di chi commette certe atrocità, questi senza nessuna vena poetica però. Nancy è una corsa tra le valli deserte afose, un viaggio on the road, un’esplorazione, come quella che il brano compie nei meandri dei pensieri di una ragazza desiderosa di un nuovo amore. Ahimana è una delle perle del disco, esotica, come un mantra techno messo in musica da uno sciamano che ci porta in uno stato di trance. L’elemento acquatico, che trascina all’essenza e sospende ogni ostilità, predomina fino ad Atlantico, pezzo di chiusura che canta il desiderio impulsivo di abbandonarsi in quest’oceano, mettendo in stand by i pensieri, l’intermodulazione della chitarra sembra fissare la soluzione e con la distorta batteria, intervallati dal meditativo sax, sembrano esprimere in chiave post-rock “E il naufragar m’è dolce in questo mare…”. Un disco contemplativo e passionale che ci avvicina alle radici prime della terra, rivelazione di un viaggio allucinogeno accompagnato da onirismi; il vento caldo ci trasporta lontani, tra i fantasmi, ponti ideali che ricongiungono electro, ambient, house sperimentale, ritmi africani, desertici, prog e suoni di ghiaccio nordeuropei per farne un continuum musiconarrativo chiamato Omosumo. Un disco raffinato, il trio palermitano è già un cult.